Reddito di Cittadinanza, Inapp: il 45,8% dei percettori sono lavoratori poveri

Guarini «Urgente rinnovare i Contratti nazionali scaduti e definire aumenti economici congrui, rafforzare la contrattazione collettiva realmente rappresentativa e incentivare la diffusione del contratto di II livello che rimane lo strumento fondamentale per aumentare il potere d’acquisto delle retribuzioni. L’introduzione di un salario minimo legale rischia di negare la complessità del lavoro e le peculiarità settoriali in cui esso si articola nel tessuto produttivo italiano, che è frammentato in piccole e microimprese»

Roma, 24 febbraio 2022 – Il 45,8% dei percettori del Reddito di cittadinanza risulta occupato (552.666 standard e 279.290 precari) con impieghi tali da non consentire di emergere dal disagio tanto da costringere a ricorrere alla misura per la sussistenza.

E’ quanto emerso dal policy brief che l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp) dedicato al Reddito di cittadinanza attraverso l’indagine Plus, rappresentativa dell’intero territorio nazionale su un campione di oltre 45.000 individui dai 18 ai 74 anni.

Secondo il rapporto, oltre 814 mila cittadini, in rappresentanza di altrettante famiglie, hanno percepito il Reddito di cittadinanza già da prima dell’emergenza Covid 19, pari al 45% dei percettori. Poco più di 1 milione di famiglie (il 55%), invece, ha iniziato a percepire il RdC durante la crisi sanitaria. Complessivamente la platea di percettori di RdC è stata di circa 1,8 milioni di famiglie.

A questi beneficiari si aggiungono circa 1,6 milioni di famiglie che intendono fare richiesta della misura di sostegno a breve e 1,4 milioni di nuclei la cui domanda non è stata accolta.

Secondo il presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda «il Reddito di cittadinanza ha rappresentato un’ancora di salvezza per 1,8 milioni di famiglie, ma va notata la percentuale di ‘lavoratori poveri’».

Fadda ha aggiunto che «basterebbe migliorare le condizioni retributive e lavorative di questi lavoratori per quasi dimezzare immediatamente l’attuale numero dei percettori del Reddito di cittadinanza».

«Peraltro – ha evidenziato – anche la grande domanda potenziale rivela un 49,8% di simili “working poors” e ciò conferma la necessità di osservare il mercato del lavoro ben oltre il semplice aspetto del numero degli occupati per spingere analisi e interventi sul tema della qualità del lavoro, delle retribuzioni, della produttività, e della riduzione della precarietà».

Per il segretario generale della Fisascat Cisl Davide Guarini.

«E’ urgente rinnovare i Contratti nazionali scaduti, definire aumenti economici congrui e rafforzare la contrattazione collettiva realmente rappresentativa da un lato, e dall’altro incentivare la diffusione del contratto di II livello che rimane lo strumento fondamentale per aumentare il potere d’acquisto delle retribuzioni. Un’azione da tempo necessaria, resa ancor più urgente dall’impennata inflazionistica che sta fortemente minacciando i salari».

«Il salario, in Italia – ha evidenziato il sindacalista – è materia dell’autonomia negoziale, che nel tempo ha saputo costruire non facili equilibri che spaziano anche oltre la retribuzione: assistenza sanitaria integrativa, previdenza complementare, formazione continua, 14esima mensilità, permessi retribuiti e tutta quell’impalcatura di tutele che i Ccnl prevedono in aggiunta alla legge.

Rafforzare la contrattazione dovrebbe essere la priorità per contrastare il fenomeno del lavoro povero e favorire la buona occupazione». Guarini rimarca la posizione del sindacato sull’introduzione di un salario minimo legale «che rischia di negare la complessità del lavoro e le peculiarità settoriali in cui esso si articola nel tessuto produttivo italiano, che è frammentato in piccole e microimprese».

«Pensare di risolvere il problema del working poor introducendo un salario minimo per legge è fuorviante – ha chiosato – poiché il problema dipende non tanto dai minimi orari definiti dalla contrattazione collettiva, che nella maggior parte dei casi si attestano anche oltre i 9 euro, quanto piuttosto dal ricorso patologico che si fa dei contratti precari, per non parlare del lavoro nero, che non dovrebbe nemmeno esistere».

«Part time involontario e contratti a tempo determinato – ha concluso il sindacalista – non si combattono, purtroppo, con un salario minimo legale».

Related Posts