Istat, tra il 2007 e il 2020 salari netti diminuiti del 10%. Il 76% dei redditi lordi non supera i 3 …

Guarini: «La strada maestra per aumentare i salari è la contrattazione collettiva. Urgente definire i rinnovi contrattuali attesi da più di 5milioni di lavoratrici e lavoratori del terziario di mercato»

Roma, 22 dicembre 2022 – La questione salariale, pur essendo una delle maggiori emergenze del Paese, continua a restare ai margini del dibattito politico mentre i lavoratori italiani sono sempre più poveri. Dal 2007 al 2020, anno della pandemia, i salari netti sono diminuiti del 10% e il 76% dei redditi lordi, al netto dei contributi sociali, non supera i 30mila: la metà dei redditi lordi individuali si colloca tra 10.001 e 30.000 euro annui, oltre un quarto è sotto i 10.001 euro e soltanto il 3,7% supera i 70.000 euro. E’ quanto emerge dall’indagine “Reddito e condizioni di vita” 2021 dell’Istituto di Statistica, con riferimento, per quel che riguarda il reddito, agli anni 2019 e 2020.

La distribuzione dei redditi lordi individuali, si legge nel rapporto, “mostra nel 2020 un aumento consistente rispetto al 2019 della quota dei redditi della classe inferiore (meno di 10.000 euro) in particolare per i redditi da lavoro autonomo (41,7% nel 2020 rispetto al 35.5% nel 2019) e da lavoro dipendente (25% rispetto al 21,3% del 2019)”. Non solo. Nel 2020, rileva l’Istat, con i redditi netti da lavoro dipendente in calo del 5%, il valore medio del costo del lavoro, al lordo delle imposte e dei contributi sociali, è pari a 31.797 euro, il 4,3% in meno dell’anno precedente. La retribuzione netta a disposizione del lavoratore – si legge nel rapporto – è pari a 17.335 euro e costituisce poco più della metà del totale del costo del lavoro (54,5%).

Il rapporto rileva anche le forti criticità sul cuneo fiscale: la differenza tra il costo sostenuto dal datore di lavoro e la retribuzione netta del lavoratore, è in media pari a 14.600 euro e sebbene si riduca del 5,1% rispetto al 2019 continua a superare il 45% del costo del lavoro (45,5%). I contributi sociali dei datori di lavoro costituiscono la componente più elevata (24,9%), il restante 20,6% risulta a carico dei lavoratori: il 13,9%, sotto forma di imposte dirette e il 6,7% di contributi sociali. Confrontando le variazioni a prezzi costanti nelle componenti del costo del lavoro tra il 2007 (anno che precede la crisi economica) e il 2020 risulta che “i contributi sociali dei datori di lavoro sono diminuiti del 4%, anche per l’introduzione di misure di decontribuzioni, mentre i contributi dei lavoratori sono rimasti sostanzialmente invariati, le imposte sul lavoro dipendente sono aumentate in media del 2%”.

A lanciare l’allarme sulla questione salariale non è solo l’Istat. Secondo l’Inapp l’Italia è l’unico Paese dell’Ocse, “in cui dal 1990 al 2020 il salario medio annuale è diminuito (-2,9%). L’Istituto collega le criticità alla “scarsa produttività” e alle “esigenze di riduzione dei costi da parte delle imprese”. Scarsa produttività e salari bassi, secondo l’Inapp, “hanno accentuato le disuguaglianze”. L’Italia è l’unico Paese dell’Ocse, spiega l’Istituto, “in cui dal 1990 al 2020 il salario medio annuale è diminuito (-2,9%), mentre in Germania è cresciuto del 33,7% e in Francia del 31,1%”. Un divario progressivamente cresciuto, fino al -19,6% (2010-2020). Secondo i dati del World Inequality Database (WID), nel periodo 1990-2021 in Italia, la quota di reddito totale detenuta dal 50% più povero della popolazione è in costante calo: dal 18,9% del 1990 al 16,6% del 2021. La quota detenuta dal top 1% è aumentata invece di circa il 60%. Tra le cause della bassa produttività, il mismatch delle competenze e la debolezza del tessuto produttivo che non le valorizza adeguatamente: l’Italia è l’unico Paese del G7 in cui la maggior parte dei laureati è impiegata in attività di routine. Risolvere questo problema, spiega l’Inapp, “potrebbe produrre una crescita della produttività del 10%”.

A pesare sulla questione salariale anche l’inflazione che a novembre ha raggiunto quota 11,8%, erodendo il potere di acquisto di salari e pensioni.

Per il segretario generale della Fisascat Cisl Davide Guarini «la strada maestra per aumentare i salari è la contrattazione collettiva». Il sindacalista ha rilanciato sull’urgenza di «definire i rinnovi contrattuali del terziario di mercato, attesi da più di 5milioni di lavoratori del terziario e della distribuzione commerciale, del turismo, della vigilanza privata e dei servizi fiduciari, delle imprese pulizie artigiane, delle aziende termali, delle cooperative sociali e del comparto del lavoro domestico». Il sindacalista ha sollecitato «un decisivo intervento dello Stato per incentivare la contrattazione collettiva tramite tagli contributivi alle imprese da legare agli aumenti contrattuali e sgravi fiscali per le lavoratrici e i lavoratori» ed ha invitato le Parti Sociali «a concertare un meccanismo disincentivante che sia in ogni caso utile a recuperare la perdita di potere di acquisto subita dalle lavoratrici e dai lavoratori nei periodi di vacanza contrattuale».

La «scarsa diffusione della contrattazione decentrata, aziendale e territoriale – ha poi aggiunto il sindacalista – vanifica l’unico strumento collettivo in grado di redistribuire la produttività tra imprese e lavoratori, incrementando in questo modo il potere di acquisto dei salari», uno strumento da supportare «con una legislazione di sostegno che semplifichi la disciplina e renda gli sgravi più strutturali e fruibili». Guarini ha poi rimarcato sulla necessità di «ripensare logiche di adeguamento dei salari che hanno guidato la contrattazione dal 2009 ad oggi». Nel dettaglio, per il sindacalista, «l’indice Ipca non può più essere ritenuto in grado di assicurare coerenza tra gli aumenti salariali e il costo della vita, che è la funzione centrale della parte economica di qualsiasi contratto nazionale».

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